Cassazione civile n. 15814/2008

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Sentenza Cassazione civile n. 15814/2008

Cassazione civile n. 15814/2008
Giurisdizione Cassazione civile
Numero 15814
Data 12/06/2008
Massima Non possono essere considerate stragiudiziali le spese che gli avvocati sostengono per attività professionali non esplicate davanti ai giudici come ad esempio attività di carattere investigativo.
Corte di Cassazione

ha emesso la seguente

SENTENZA

Svolgimento del processo

L'Avv. [omissis] ha chiesto ed ottenuto dal Pretore di Roma ingiunzione di pagamento, nei confronti di [omissis] e [omissis], per la somma di £ 11.695.286 ciascuna, oltre accessori e spese, in forza di parcella per attività professionale svolta in favore delle stesse opinata dal Consiglio dell'Ordine Forense di Roma.

[omissis] e [omissis], hanno proposto opposizione, deducendo l'avvenuto pagamento degli onorari e spiegando nei confronti del professionista domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni per responsabilità derivante dall'espletamento del mandato conferitogli.

L'Avv. [omissis] , costituendosi, ha contestato le avverse eccezioni e pretese.

Il Tribunale di Roma, cui la vertenza è pervenuta a seguito della riforma del giudizio di primo grado, ha respinto l'opposizione e la riconvenzionale proposte dalle ingiunte.

Queste hanno proposto appello deducendo:

1) l'insussistenza del credito nelle misure richieste e l'omessa motivazione in ordine alle specifiche censure svolte nel primo motivo d'opposizione;

2) l'insussistenza del credito professionale per avvenuto pagamento e l'errata valutazione delle risultanze istruttorie in genere e della prova testimoniale in particolare;

3) la sussistenza delle inadempienze professionali dell'appellato fatte valere in riconvenzionale e l'omessa motivazione ed errata valutazione.

L'Avv. [omissis] ha resistito e proposto, a sua volta, appello incidentale deducendo:

1) l'insufficiente quantificazione degli onorari liquidati ai sensi dei commi 2 e 4 dell'art. 5 della tariffa forense;

2) la mancata condanna delle appellanti al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., da liquidare in via equitativa;

3) la mancata declaratoria di nullità delle deposizioni rese in primo grado dai testi [omissis], [omissis] e [omissis] per incapacità.

La corte capitolina ha parzialmente accolto l'appello principale - riducendo la somma dovuta dalle appellanti, unitariamente e non per ciascuna, a £ 1.990.000 per diritti e £ 7.160.000 per onorari, dalle quali detrarre un acconto di £ 3.000.000 - sulla considerazione:

quanto al primo motivo, che, premessa la non vincolatività del parere del Consiglio dell'Ordine espresso limitatamente agli onorari, dovessero essere ridotti i compensi per diritti ed onorari relativamente alle due procedure per apposizione di sigilli e sequestro conservativo, tenuto conto d'un diverso riferimento alla pertinente fascia tabellare;

quanto al secondo motivo, che dovesse essere riconosciuto un acconto di £ 3.000.000 e non uno di £ 6.000.000;

quanto al terzo motivo, che non risultassero elementi sufficienti per ritenere provata una responsabilità del professionista tale da giustificare l'accoglimento della domanda risarcitoria.

La stessa corte ha respinto l'appello incidentale sulla considerazione:

quanto al primo motivo, che la riconvenzionale per la liquidazione d'un maggior compenso, in quanto proposta dall'ingiungente opposto, fosse inammissibile;

quanto al secondo motivo, che non sussistessero i presupposti per una condanna della controparte ai danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c;

quanto al terzo motivo, che ne difettasse la rilevanza essendo stati i contestati testimoni già ritenuti inattendibili dal primo giudice.

L'Avv. [omissis] impugna tale decisione con ricorso per cassazione affidato a quattro motivi al quale ha fatto seguire memoria;

Resistono la [omissis] e la [omissis] con controricorso proponendo, a loro volta, ricorso incidentale affidato a due motivi.

L'Avv. [omissis] resiste al ricorso incidentale con controricorso.

Motivi della decisione

I due ricorsi, proposti avverso la medesima sentenza e tra loro connessi, vanno riuniti ex art. 335 c.p.c. ma trattati separatamente.

I - RICORSO PRINCIPALE

Con il primo motivo, il ricorrente - denunziando «Violazione e falsa applicazione della tariffa forense (Tabella B) Paragrafo I, di cui al D.m. n. 584 del 05/10/1994, in relazione all'art. 360 n. 3) e n. 5) c.p.c, per violazione e falsa applicazione del citato D.M., nonché per omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione>> - si duole che il giudice a quo abbia erroneamente ridotto i diritti di avvocato relativi ad entrambe le attività professionali svolte e parcellate: quanto al procedimento per apposizione dei sigilli sull'eredità giacente del de cuius [omissis], avendo ritenuto applicabile la fascia di valore della causa compresa fra £ 200 milioni e £ 500 milioni in luogo di quella fra £ 500 milioni e £ 1 miliardo, senza tener conto di vari beni mobili ulteriori rispetto a quelli considerati al fine della determinazione della fascia; quanto al procedimento per sequestro conservativo, riducendo a £ 990.000 la liquidazione effettuata dal primo giudice in £ 1.760.000, pur avendo riconosciuto corretto il valore tabellare, compreso fra £ 500 milioni e £ 1 miliardo posto a base della parcella.

Con ciò <<... la Corte di Appello di Roma incorre in una evidente violazione di legge, poiché omette di prendere in esame e di indicare tutti i punti di riferimento per addivenire al calcolo dei diritti di avvocato di cui alla tabella B, capo I della tariffa forense; non fornisce altresì alcuna motivazione o elemento esplicativo del calcolo che adotta attraverso il quale perviene alla minore quantificazione>>.

Con il secondo motivo, il ricorrente - denunziando <> - si duole che il giudice a quo: quanto al procedimento per apposizione dei sigilli, sia incorso per la liquidazione degli onorari nei medesimi errori già evidenziati per la liquidazione dei diritti ed, inoltre, abbia omesso di tener conto della particolare importanza dei giudizi eppertanto del dovuto raddoppio del compenso, dell'equiparabilità dei procedimenti ai giudizi contenziosi con applicazione della tabella pertinente, della possibilità dell'aumento del 20 % per ciascuna parte assistita richiesto nell'impropria forma della domanda riconvenzionale; quanto al procedimento per sequestro conservativo, abbia senza giustificazione ridotto gli onorari dalle £ 11.300.000 liquidate dal primo giudice a £ 5.000.000.

I due motivi, prospettando questioni analoghe, possono essere trattati congiuntamente.

Le censure per violazioni di legge non risultano meritevoli d'accoglimento.

Devesi, infatti, in primo luogo rilevare l'inconferenza della ripetuta doglianza imperniata sul fatto che la corte territoriale sia pervenuta a conclusioni diverse da quelle alle quali era pervenuto il giudice di primo grado ed abbia disatteso le tesi sulle quali quest'ultimo aveva basato l'impugnata decisione, in quanto finalità del giudizio di secondo grado è, per l'appunto, nei limiti del devoluto, una nuova valutazione degli elementi da porre a base della decisione ed una nuova pronunzia sull'oggetto della controversia, indipendentemente dalle argomentazioni e dalla decisione del giudice di primo grado, delle quali non costituisce un riesame alla luce delle censure mosse dall'appellante; riesame che può anche aver luogo, in vista della nuova pronunzia, ma che non ne rappresenta il presupposto né ne condiziona l'autonomia ed, infatti, nel giudizio di legittimità il vaglio della decisione di secondo grado non può avere altro oggetto se non gli eventuali vizi ad essa propri, del tutto irrilevante essendone il rapporto con quella di primo grado.

Ciò posto, va tenuto presente che il vizio della sentenza previsto dall'art. 360 n. 3 c.p.c. dev'esser dedotto non solo mediante la puntuale indicazione delle norme assuntivamente violate, ma anche, come questa Corte ha ripetutamente evidenziato, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo debba ritenersi in contrasto con ciascuna delle medesime indicate norme regolatrici della fattispecie o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità e/o dalla prevalente dottrina, non qualsiasi affermazione contenuta nella sentenza gravata, ma quelle sole affermazioni, puntualmente identificate, che concernano valutazioni "in diritto", id est costituiscano l'espressione d'una qualificazione giuridica del fatto esaminato e della consequenziale applicazione ad esso d'una determinata disciplina normativa.

Ne consegue che, ai fini dell'ammissibilità del motivo di ricorso dedotto ai sensi della disposizione in esame, risulta inidoneamente formulata - come nel motivo di ricorso che ne occupa, nel quale non sono svolte argomentazioni in diritto, ma considerazioni in fatto relativamente ai beni da prendere in considerazione, al loro valore, a quali fossero le attività meritevoli di compenso e di quale entità questo dovesse essere - la critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito, nel decidere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata dal ricorrente non mediante puntuali contestazioni delle soluzioni stesse nell'ambito d'una valutazione comparativa con diverse soluzioni prospettate sul piano giuridico, bensì mediante la mera trattazione di questioni in fatto.

Ad un profilo di diritto potrebbero riportarsi alcune delle dedotte violazioni della tariffa nella liquidazione degli onorari, ma tali violazioni non sussistono.

Anzi tutto, la liquidazione degli onorari per i procedimenti speciali, quali sono quelli dequibus, è prevista ex lege in misura onnicomprensiva tra un minimo ed un massimo, onde non v'è da discutere della liquidazione o meno di singole voci laddove i limiti siano rispettati, ma la censura in esame non sarebbe esatta neppure ove si trattasse d'ordinario giudizio di cognizione.

Contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, infatti, a differenza dall'ipotesi della liquidazione globale di diritti inferiore alla richiesta, nel qual caso il giudice è notoriamente tenuto ad indicare le ragioni della mancata liquidazione delle voci ritenute non pertinenti, ove trattisi, invece, della liquidazione dei soli onorari, il giudice non è tenuto a giustificare, voce per voce, l'operata riduzione del compenso richiesto per ciascuna voce quando operi una liquidazione complessiva e questa, quale desumibile dalla sommatoria di tutte le voci, risulti rispettosa dei limiti della tariffa (Cass. n. 6214/1992, Cass. n. 768/1982, Cass. n. 645/1969); poiché, infatti, nella liquidazione degli onorari d'avvocato, la determinazione della misura è rimessa alla libera valutazione dei giudici del merito, incensurabile in Cassazione purché siano rispettati i minimi ed i massimi fissati dalla legge professionale, solo qualora il giudice ritenga di dover oltrepassare i detti limiti, ravvisando una manifesta sproporzione tra la prestazione dell'avvocato e l'onorario previsto dalla tabella, la decisione deve essere motivata, in tal caso essendovi luogo a verificare così l'idoneità in astratto dei motivi stessi a giustificare la pronunzia come la logicità ed adeguatezza delle argomentazioni svolte al riguardo, giacché vizi in tal senso potrebbero essere indicativi d'un erroneo processo formativo della volontà decisionale espressa sul punto, e, tuttavia, resterebbe comunque escluso l'accertamento in concreto di detti motivi, quaestio facti la cui valutazione si sottrae al sindacato medesimo.

Nella specie, il ricorrente non contesta che il giudice a quo, nella liquidazione degli onorari e tenuto conto dello scaglione ritenuto applicabile, sia sceso, nel complesso, al di sotto del limite minimo della tariffa, costituendo, invece, oggetto di censura la sola entità della liquidazione, in quanto non rispondente alle aspettative del professionista, non anche, appunto, la sua insufficienza rispetto ai limiti minimi della tariffa con riferimento ai procedimenti speciali in discussione considerati ciascuno nel complesso delle attività svolte.

Si tenga presente, al riguardo, che la questione d'illegittimità costituzionale delle normative con le quali è consentito al giudice di procedere alla riduzione degli onorari richiesti dal professionista è già stata dichiarata manifestamente infondata dal giudice delle leggi con sentenza n. 36 del 25/03/1980, che opera richiamo a principi già affermati con sentenza n. 75 del 07/07/1964.

Quanto alla questione dell'aumento degli onorari oltre i massimi consentiti in ragione della pretesa particolare complessità dell'attività svolta, vale a disattenderla la considerazione che non risulta dall'impugnata i sentenza - e, per il vero, neppure dal motivo di ricorso in esame - che domanda in tal senso fosse stata formulata ; con l'istanza per decreto ingiuntivo, accolta nel provvedimento monitorio e confermata con la sentenza di primo grado nel giudizio d'opposizione, onde non si vede a qual titolo il secondo giudice avrebbe dovuto decidere d'una domanda nuova ed inammissibile in sede d'appello; una motivazione specifica sarebbe stata necessaria solo ove i giudici del monitorio e dell'opposizione in primo grado avessero espressamente accolto una specifica domanda nel senso considerato, ma, in difetto di ciò, non v'era spazio perché la questione dovesse formare oggetto di trattazione . D'altra parte, l'aumento degli onorari oltre il massimo e sino al doppio costituisce un potere e non un dovere per il giudice, e la valutazione della particolare o addirittura straordinaria importanza, complessità, difficoltà della pratica è rimessa al prudente apprezzamento dello stesso, la cui discrezionalità già si esplica nella determinazione del compenso, sulla base dei medesimi parametri, tra i minimi ed i massimi stabiliti nella tabella allegata alla tariffa stessa; pertanto, già il fatto che, nella specie, il giudice abbia attribuito modesta rilevanza al livello quantitativo e qualitativo dell'opera al predetto specifico fine, liquidando gli onorari più verso il minimo che verso il massimo, sta a significare come l'esercizio del detto potere non trovasse, nella specie, giustificazione alcuna; al qual riguardo, giova rammentare che, laddove al giudice sia attribuito un potere discrezionale, il mancato esercizio di esso non necessita di specifica motivazione, dovendosi ritenere implicita una valutazione negativa dell'opportunità d'avvalersene, onde è sottratto a qualsiasi titolo al sindacato di legittimità (vedansi, e pluribus, Cass. n. 4800/2001, Cass. n. 4211/1998, Cass. n. 2052/1997, Cass. n. 6644/1995, Cass. n. 195/1991, Cass. n. 3672/1987).

Quanto all'aumento del compenso per la difesa di più soggetti, lo stesso ricorrente ammette d'averlo richiesto non con l'istanza per decreto ingiuntivo ma solo con domanda riconvenzionale che, pertanto, doveva necessariamente essere dichiarata inammissibile.

Nell'ordinario giudizio di cognizione, che si instaura a seguito della opposizione a decreto ingiuntivo, infatti, solo l'opponente, nella sua sostanziale posizione di convenuto, può proporre domande riconvenzionali, non anche l'opposto, che, rivestendo la posizione sostanziale di attore, non può proporre domande diverse da quelle fatte valere con la ingiunzione (Cass. n. 4795/1988, Cass. n. 3119/1975, Cass. n. 12922/1991), salvo il diritto ad agire in reconventio reconventionis ove la nuova pretesa tragga ragione dalla riconvenzionale proposta dall'ingiunto opponente rispetto alla quale l'originario intimante venga a trovarsi, a sua volta, in posizione di convenuto (Cass. n. 11415/2004).

Parimenti immeritevoli d'accoglimento le censure per vizi di motivazione.

Il motivo di ricorso per cassazione con il quale alla sentenza impugnata venga mossa censura per vizi di motivazione ex art. 360 n. 5 CPC dev'essere inteso a far valere, a pena d'inammissibilità ex art. 366 n. 4 CPC in difetto di loro specifica indicazione, carenze o lacune nelle argomentazioni, ovvero illogicità nell'attribuire agli elementi di giudizio un significato fuori dal senso comune, od ancora mancanza di coerenza tra le varie ragioni esposte per assoluta incompatibilità razionale degli argomenti ed insanabile contrasto tra gli stessi; non può, invece, essere inteso a far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte ed, in particolare, non vi si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'iter formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame; diversamente, il motivo di ricorso per cassazione si risolverebbe - com'è, appunto, per quelli dei quali trattasi - in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice del merito, id est di nuova pronunzia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di legittimità.

Devesi, inoltre, considerare come, allorché sia denunziato, con il ricorso per cassazione ex art. 360 n. 5 CPC, un vizio di motivazione della sentenza impugnata, della quale si deducano l'incongruità e/o l'insufficienza delle argomentazioni svoltevi in ordine alle prove, per asserita omessa od erronea valutazione delle risultanze processuali, sia necessario, in ottemperanza al principio dell'autosufficienza del ricorso posto al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo - necessariamente preliminare ed, in caso d'esito negativo, assorbente - anche sulla decisività degli elementi di giudizio assuntivamente non valutati od erroneamente valutati, che il ricorrente indichi puntualmente ciascuna delle risultanze istruttorie alle quali fa riferimento e ne specifichi il contenuto mediante loro sintetica ma esauriente esposizione ed, all'occorrenza, integrale trascrizione nel ricorso, non essendo idonei all'uopo il semplice richiamo agli elementi di giudizio acquisiti nella fase di merito e la prospettazione del valore probatorio di essi quale inteso soggettivamente dalla parte in contrapposizione alle valutazioni effettuate dal giudice di quella fase con la sentenza impugnata in ordine al complesso delle acquisizioni probatorie e/o a quelle di esse ritenute rilevanti ai fini dell'adottata decisione e, tanto meno, inammissibili richiami per relationem agli atti della precedente fase del giudizio.

Nella specie, il ricorrente opera generico riferimento ad una serie di beni che non sarebbero stati presi in considerazione al fine di determinare il valore complessivo del relictum mobiliare, ma non indica specificamente quale fosse il valore di ciascun d'essi, donde questo fosse con certezza desumibile, se e con quali atti processuali tali elementi di giudizio fossero stati portati a conoscenza del giudice cui s'imputa di non averli adeguatamente presi in considerazione.

Per il resto, l'esposizione si traduce in una semplice prospettazione di valutazioni delle emergenze istruttorie in senso difforme da quelle espresse dal giudice che non soddisfano ai requisiti richiesti per una valida proposizione della censura in esame.

Fermo che, come già rilevato, il motivo non è inteso a censurare la ratio decidendi ma a prospettare, in violazione dei sopra richiamati principi, una diversa interpretazione degli accertamenti in fatto, estranea alle valutazioni rimesse al giudice della legittimità ed è, per ciò stesso, inammissibile, può, comunque, anche evidenziarsi che la motivazione fornita dalla corte territoriale all'assunta decisione risulta logica ed adeguata, basata com'è su considerazioni esaurienti in ordine all'oggettivo valore probatorio attribuibile a quelli, tra i vari elementi di giudizio desumibili dagli atti, ritenuti idonei e sufficienti a giustificare la decisione e questa risultando coerente e consequenziale alla razionale valutazione di essi; un giudizio, dunque, operato nell'ambito dei poteri discrezionali del giudice del merito ed a fronte del quale, in quanto obiettivamente immune dalle censure ipotizzabili in forza dell'art. 360 n. 5 CPC, la diversa opinione soggettiva di parte ricorrente è inidonea a determinare le conseguenze previste dalla norma stessa.

Con il terzo motivo, il ricorrente - denunziando <> - si duole che il giudice a quo abbia ritenuto non doversi aggiungere alla liquidazione degli onorari per i due procedimenti considerati quelli richiesti per prestazioni stragiudiziali attinenti ad attività investigativa intesa al rinvenimento dei conti correnti bancari del de cuius, con ciò violando le richiamate disposizioni, per le quali al professionista sono dovuti gli onorari stragiudiziali anche se poi presta la propria opera nel giudizio.

Il motivo non merita accoglimento sotto alcuno dei prospettati profili di censura.

La corte capitolina ha, in vero, operato corretta applicazione dei principi, più volte affermati da questa Corte, per cui in tema di compensi professionali degli avvocati non possono essere considerate come stragiudiziali, ed essere perciò compensate separatamente da quelle giudiziali, quelle attività professionali che, sebbene non esplicate davanti al giudice, siano tuttavia con quelle giudiziali strettamente connesse e ad esse complementari in quanto intese all'introduzione e svolgimento del procedimento giudiziale anche se svolte al di fuori di esso, così da costituirne il naturale completamento; a maggior ragione ove la natura giudiziale della prestazione, derivi dallo stesso tenore della tariffa giudiziale professionale ogni volta che la prestazione stessa sia in essa esplicitamente prevista (Cass. n. 13770/2007, Cass. n. 6214/1992).

L'applicazione di tali principi al caso di specie la stessa corte ha, poi, correttamente motivato evidenziando come faccia parte dell'impegno professionale dell' Avvocato l'attività di reperimento di documenti e beni, in quanto costitutivi della materia-base sulla quale innestare l'attività più propriamente giuridica, tanto che tale ricerca è espressamente prevista in autonoma voce dalla tariffa professionale quale attività specificamente compensata; evidenziando altresì, a completamento della motivazione, come l'istante non avesse dimostrato, documentandolo, d'aver affrontato spese, queste sì eventualmente rimborsabili, per l'espletamento delle indagini in questione.

Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente - denunziando «Violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 157, 246 c.p.c. , art. 159 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c. n.ri 3), 5)>> - si duole che il giudice a quo non abbia espressamente dichiarato inammissibili e quindi nulle le deposizioni rese dai testi [omissis] e [omissis], giusta la sua specifica eccezione.

Il motivo è inammissibile per difetto d'interesse, dacché le deposizioni in questione non sono state prese in considerazione dai giudici del merito ai fini della decisione in quanto ritenute, comunque, inattendibili e, d'altra parte, la corte capitolina ha espressamente evi­denziato l'incapacità d'entrambi i testi in quanto inte­ressati personalmente alla vicenda (cfr. pp. 14 e e 16).

II - RICORSO INCIDENTALE

Con il primo motivo, le ricorrenti - denunziando «Vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. con riferimento all'art. 116 c.p.c. ed in ordine alla valutazione delle risultanze della prova testimoniale espletata» - si dolgono che il giudice a quo abbia erroneamente ravvisato un contrasto tra le deposizioni dei testi [omissis] ed [omissis] e, di conseguenza, abbia escluso che risultasse provato un acconto di £ 6.000.000 versato alla controparte.

Il motivo è inammissibile.

La corte capitolina ha ritenuto inattendibili le deposizioni dei testi in questione per due distinte ed autonome ragioni, id est non soltanto perché ritenute tra loro contraddittorie, ma anche perché i testi sono stati considerati portatori ciascuno d'un interesse personale alla controversia. Questa seconda ragione non è stata in alcun modo censurata con il motivo in esame, dacché le ricorrenti, mentre nulla hanno obiettato quanto al teste [omissis], la cui deposizione era da considerare comunque vietata ex art. 247 c.p.c. trattandosi del marito in comunione dei beni dell'una d'esse, quanto al teste [omissis], figlio dell'altra, si sono limitate ad indicarlo apoditticamente come "capace a testimoniare" senza svolgere argomento alcuno a contrasto dell'incapacità dello stesso ex art. 246 c.p.c. affermata nella sentenza impugnata.

Ciò stante, va applicato il ripetuto insegnamento di questa Corte per cui, ove una sentenza od un capo di essa si fondino su più ragioni, tutte autonomamente idonee a sorreggerli, è necessario non solo che ciascuna di esse abbia formato oggetto di specifica censura, ma anche che il ricorso abbia esito positivo nella sua interezza con l'accoglimento di tutte le censure, affinché si realizzi lo scopo dell'impugnazione, la quale è intesa alla cassazione della sentenza, in toto od in un suo singolo capo, id est di tutte le ragioni che autonomamente l'una o l'altro sorreggano; onde è sufficiente che anche una sola delle dette ragioni non formi oggetto di censura, ovvero che sia respinta la censura relativa anche ad una sola delle dette ragioni, perché il ricorso avverso la sentenza, oppure il motivo d'impugnazione avverso il singolo capo di essa, debbano essere respinti nella loro interezza, le censure nell'uno o nell'altro contenute avverso le ulteriori ragioni poste a base della sentenza o del capo di essa impugnati divenendo inammissibili per difetto di interesse (e pluribus, da ultimo, Cass. n. 16602/2005, Cass. n. 18240/2004, Cass. n. 5902/2002, Cass. n. 4199/2002, Cass. n. 12976/2001, Cass. n. 5149/2001).

Con il secondo motivo, le ricorrenti - denunziando «Vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. con riferimento agli artt. 236 - 1176 - 1218 - 1223 e 1226 c.c.» - si dolgono che il giudice a quo abbia disatteso la loro domanda condanna della controparte al risarcimento del danno per responsabilità professionale sulla sola considerazione della natura di mezzi e non di scopo dell'attività dell'Avvocato ed all'uopo, elencano una serie d'inadempienze della controparte stessa sostenendo che, ove non si fossero verificate, le loro difese avrebbero avuto serie possibilità di successo e risultati sostanziali più utili, mentre v'era stato il concreto pregiudizio del sequestro conservativo d'un ingente patrimonio mobiliare ed immobiliare, l'entità del cui ristoro pecuniario il giudice ben avrebbe potuto determinare in via equitativa.

Il motivo non merita accoglimento.

La corte capitolina non ha disatteso il motivo d'appello in questione sulla sola considerazione della natura dell'attività professionale, ma anche per non avere le interessate dimostrato quali danni in concreto avessero subito in conseguenza delle allegate inadempienze del professionista.

Tale considerazione è del tutto corretta e le ricorrenti neppure in questa sede hanno non solo dimostrato ma neppure argomentato la decisività delle allegate circostanze nella determinazione d'un danno identificato e quantificabile.

Il concreto esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 C.C., espressione del più generale potere di cui all'art. 115 del codice del rito, dà luogo non ad un giudizio d'equità ma ad un giudizio di diritto caratterizzato dalla cosiddetta equità giudiziale correttiva od integrativa, ond'è che non solo è subordinato alla condizione che risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile per la parte interessata provare il danno nel suo preciso ammontare, come desumibile dalle citate norme sostanziali, ma non ricomprende anche l'accertamento del pregiudizio della cui liquidazione si tratta, anzi, al contrario, presuppone già assolto dalla parte stessa, nei cui confronti le citate disposizioni non prevedono alcuna relevatio ab onere probandi al riguardo, l'onere su di essa incombente ex art. 2697 CC di dimostrare sia la sussistenza sia l'entità materiale del danno, così come non la esonera dal fornire gli elementi probatori e i dati di fatto dei quali possa ragionevolmente disporre, nonostante la riconosciuta difficoltà, al fine di consentire che l'apprezzamento equitativo sia, per quanto possibile, limitato e ricondotto alla sua peculiare funzione di colmare soltanto le lacune riscontrate insuperabili nell'iter della precisa determinazione dell'equivalente pecuniario del danno stesso (e pluribus, da ultimo, Cass. n. 17492/2007, Cass. n. 13288/2007, Cass. n. 13761/2004, conformi al precedente di Cass. n. 16202/2002, riferimenti ivi).

Inoltre, poiché il diritto al risarcimento del danno conseguente alla lesione d'un diritto soggettivo non è riconosciuto dall'ordinamento con caratteristiche e finalità punitive ma in relazione all'effettivo pregiudizio subito dal titolare del diritto leso ed, al contempo, lo stesso ordinamento non consente l'arricchimento ove non sussista una causa giustificatrice dello spostamento patrimoniale da un soggetto ad un altro (nemo locupletari potest cum aliena iactura), anche nelle ipotesi per le quali il danno sia ritenuto in re ipsa e trovi la sua causa diretta ed immediata nella situazione illegittima posta in essere dalla controparte, la presunzione attiene alla sola possibilità della sussistenza del danno ma non alla sua effettiva sussistenza e, tanto meno, alla sua entità materiale; l'affermazione del danno in re ipsa si riferisce, dunque, esclusivamente all'an debeatur, che presuppone soltanto l'accertamento d'un fatto potenzialmente dannoso in base ad una valutazione anche di probabilità o di verosimiglianza secondo l'id quod plerumque accidit, onde permane la necessità della prova d'un concreto pregiudizio economico ai diversi fini della determinazione quantitativa e della liquidazione di esso per equivalente pecuniario, e non è precluso al giudice il negare la risarcibilità stessa del danno ove la sua effettiva sussistenza o la sua materiale entità non risultino provate (ibidem).

Nella specie, le ricorrenti si sono limitate ad enunziare alcune cause d'ipotizzabile pregiudizio, omettendo, tuttavia, non solo di provare, ma anche semplicemente d'indicare essersene verificata l'effettività e quale ne fosse stata l'entità - anche a considerare il solo sequestro, sul quale le ricorrenti sembrano incentrare la maggiore ipotesi di danno, devesi rilevare come lo stesso non equivalga all'ablazione dei beni, né di questa e della sua ingiustizia possa ritenersi con certezza foriera, essendo subordinata all'esito del giudizio sul merito, mentre il danno per l'indisponibilità medio tempore dei beni sequestrati deve essere adeguatamente dimostrato in funzione di spese sostitutive della disponibilità o di serie trattative di vendita rimaste senza esito - onde non può ritenersi fondato il rimprovero mosso ai giudici del merito per non aver questi ravvisato i presupposti dell'esercizio del potere di liquidazione equitativa del danno.

III

In definitiva, nessuno degli esaminati motivi meritando accoglimento, entrambi i ricorsi vanno respinti.

Stante la reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, li respinge e compensa le spese.

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