Cassazione civile n. 22658/2008

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Sentenza Cassazione civile n. 22658/2008

Cassazione civile n. 22658/2008
Giurisdizione Cassazione civile
Numero 22658
Data 09/09/2008
Massima il professionista derubato di assegni circolari e contanti destinati ad un suo cliente è tenuto a risarcirlo anche se la custodia delle somme è avvenuta a titolo gratuito.
Corte di Cassazione

ha emesso la seguente

SENTENZA

Nell'impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue. “Con atto di citazione notificato in data 15/09/1987, i fratelli [omissis], [omissis] e [omissis] evocavano in giudizio l'avv. [omissis] davanti al Tribunale di Torino, esponendo di aver affidato a tale legale la gestione di una controversia ereditaria insorta tra di essi e la sorella [omissis]; che, a seguito di accordi raggiunti fra gli eredi, il 24/04/1986 l'avv. [omissis] riscuoteva le somme esistenti presso due istituti bancari di Torino e, convertitane una parte in assegno circolare, si avviava verso il suo studio;

che nel tragitto fra la banca e lo studio il legale subiva il furto della borsa contenente l'assegno circolare di cui sopra e la somma di lire 26.500.000 in denaro contante.

Ritenendo che il professionista non avesse usato la necessaria diligenza nella custodia del denaro, gli attori chiedevano che egli venisse condannato a rimborsar loro la somma di lire 26.500 000, oltre rivalutazione ed interessi.

Costituitosi in giudizio, il convenuto affermava di non aver tenuto un comportamento negligente che potesse costituire colpa del depositario, in quanto la perdita del denaro era seguita ad un furto con effrazione del finestrino dell'auto, ferma al semaforo.

All'esito della compiuta istruttoria, il Tribunale, con sentenza 11/12/1992, accoglieva la domanda attorea, condannando il convenuto alla corresponsione della somma rivalutata agli attori, nonché alla rifusione delle spese.

Il Tribunale rilevava infatti nel contratto a causa mista intercorso fra il legale e gli attori (prestazione d'opera intellettuale e deposito) la violazione da parte del depositario dell'obbligo di custodire la cosa con la diligenza del buon padre di famiglia (la borsa sarebbe infatti stata meglio custodita all'interno del baule oppure sul sedile accanto al conducente);

escludeva la ricorrenza del fatto fortuito, trattandosi di furto non accompagnato da violenza o minaccia alle persone;

negava che fosse provata la gratuità del deposito: stante il collegamento fra il deposito ed il contratto di prestazione d'opera intellettuale, escludeva che operasse la presunzione di gratuità di cui all'art. 1767 cod. civ..

Avverso la sentenza proponeva appello l'avv. [omissis], sostenendo che ricorreva il caso del deposito a titolo di cortesia o, a tutto concedere, del deposito gratuito, per il quale valeva la presunzione di cui all'art. 1767 cod. civ.;

sosteneva l'inesistenza di un nesso di interdipendenza volontaria o funzionale tra il rapporto professionale e quello di deposito; invocava il minor rigore con cui andava valutata la colpa nel deposito gratuito;

sosteneva l'assoluta imprevedibilità ed inevitabilità dell'accaduto e la diligenza del proprio comportamento;

lamentava che sulla somma rivalutata fossero stati calcolati anche gli interessi legali.

Gli appellati, costituitisi, chiedevano la conferma della decisione impugnata.

Con sentenza 27/10/1995 la Corte riformava la sentenza di primo grado, assolvendo l'appellante dalle domande contro di lui proposte, e condannando gli appellati alla rifusione di due terzi delle spese legali dei due gradi di giudizio.

Scaturiva tale decisione dalla ritenuta occasionalità del deposito; dalla conseguente presunzione di gratuità dello stesso; dalla ritenuta diligenza ordinaria tenuta dal depositario nella custodia della cosa; dalla ritenuta inimputabilità al depositario della perdita della cosa.

Avverso la sentenza proponevano ricorso per Cassazione [omissis], [omissis], [omissis], nonché [omissis] e [omissis], queste ultime quali eredi di [omissis].

Con sentenza 03/11/1999 - 02/06/2000 la Suprema Corte ha deciso la causa, accogliendo il ricorso e rinviando la causa per la decisione ad altra sezione della Corte d'Appello.

Riteneva infatti la Suprema Corte:

che la qualificazione giuridica del rapporto, data dal giudice d'appello, rimanesse incerta, nonostante la sua essenzialità ai fini del decidere;

quanto alla presunta gratuità del deposito, che la Corte d'Appello l'avesse fatta derivare esclusivamente dalla ritenuta mancanza di prova che la custodia fosse compresa nelle prestazioni professionali dell'avvocato, ma non si era dato conto delle eventuali altre circostanze che ex art. 1767 cod. civ. possono far desumere l'onerosità del rapporto;

che la motivazione era contraddittoria laddove aveva escluso la responsabilità dell'avvocato, riconoscendo che egli aveva agito con la diligenza del buon padre di famiglia laddove aveva collocato la borsa contenente il denaro senza particolari cautele all'interno della propria autovettura, omettendo di considerare che il depositario anche in ipotesi di deposito gratuito deve provare l'imprevedibilità ed inevitabilità della perdita della cosa, mentre tali elementi non erano stati valutati nella sentenza impugnata;

che il giudice d'appello non aveva neppure valutato che anche il deposito di cortesia è soggetto ai principi della responsabilità ex recepto, e non aveva motivato sul punto.

Con atto di citazione in riassunzione notificato al [omissis] in data 29/05/2001 [omissis],[omissis] quale unica erede del defunto [omissis], e [omissis] hanno riassunto il giudizio, proponendo le conclusioni di cui in epigrafe, asserendo la fondatezza delle rispettive domande, a loro dire fondata sui principi di diritto affermati dalla Suprema Corte nella propria sentenza.

Per le attrici in riassunzione il deposito è oneroso, è provata la colpa del depositario, e comunque, anche in ipotesi di qualificazione del deposito come gratuito, il depositario non ha fornito prova tale da liberarlo dalla propria responsabilità.

Si è costituito in giudizio il convenuto, contestando sia che la Suprema Corte abbia affermato i principi di diritto sostenuti dalle attrici, sia le affermazioni di queste circa la natura del deposito, la propria colpa, le conseguenze che le attrici ne ricavano, e chiedendo quindi di essere assolto da ogni domanda.

Il Consigliere istruttore ha disposto l'integrazione del contraddittorio nel confronti delle eredi di S.P.:

queste si sono costituite, assumendo le conclusioni di cui in epigrafe.

Sulle conclusioni riportate in epigrafe la causa è stata assegnata a decisione”.

Con sentenza decisa il 06/02/2003 e depositata il 09/04/2003 la Corte d'Appello di Torino decideva come segue: “...definitivamente decidendo in sede di rinvio, nel contraddittorio delle parti e disattesa ogni diversa istanza, eccezione e deduzione; in parziale riforma della sentenza impugnata condanna l'avv. [omissis] a versare agli attori [omissis], [omissis] quale erede di [omissis], [omissis], [omissis] e [omissis], queste ultime quali eredi di [omissis], in solido fra loro, la somma complessiva di euro 13.686,11, oltre agli interessi legali sulla stessa dalla data della domanda al saldo;

condanna l'avv. [omissis] a restituire a [omissis] la somma di euro 3.060,27, oltre agli interessi legali sulla stessa dalla data del 25/03/1997 al saldo;

condanna l'avv. [omissis] a rifondere agli attori in solido l'80% delle spese processuali sostenute, 80% che liquida per il primo grado in euro 1.362,62 per diritti ed onorari, per il secondo grado in euro 26,57 per esposti ed in euro 1.446,08 per diritti ed onorari, per il grado di cassazione in euro 67,10 per esposti ed in euro 1.652,66 per diritti ed onorari, e per il grado di rinvio in euro 600,00 per esposti ed in euro 1.652,66 per diritti ed onorari: il tutto, oltre accessori di legge (di cui IVA sulle somme imponibili, se non detraibile dalla parte vittoriosa)”.

Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione [omissis].

Hanno resistito con controricorso [omissis] e [omissis].

Le ulteriori parti intimate [omissis], [omissis] ed [omissis] (queste ultime citate quali eredi di S.P.) non hanno svolto attività difensiva.

[Omissis] ha depositato memoria.

Motivi della decisione

I primi due motivi vanno esaminati insieme in quanto connessi.

Con il primo motivo il ricorrente [omissis] denuncia “violazione o falsa applicazione dei principi in tema di deposito di cortesia - insufficienza, erroneità ed illogicità della motivazione su punto decisivo della causa (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5)” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue.

Sulla natura del rapporto di deposito per cui è causa il ricorrente avv. [omissis] aveva dedotto quanto segue.

La riunione dei [omissis] presso la Cassa di Risparmio di Torino la mattina del 02/04/19.. aveva lo scopo sia di estinguere i libretti colà esistenti, sia di ripartire le somme e definire la pratica.

Doveva dunque trattarsi di una riunione definitiva.

L'incontro nel primo pomeriggio allo studio legale dell'avv. [omissis] nello stesso giorno 02/04/19.. non era stato da alcuno previsto e fu giocoforza stabilito alla fine della mattina, sia perché alla riunione presso la C.R.T. non erano intervenuti tutti i sigg.ri [omissis], sia perché erano improvvisamente ricomparse questioni e discussione interne.

La richiesta di tenere il denaro da parte dei sigg.ri [omissis] all'avv. [omissis] avvenne in via del tutto occasionale e di cortesia.

Infatti, sia l'incarico fiduciario di deposito, sia l'incontro allo studio legale del pomeriggio non erano né previsti né programmati e costituirono fatti del tutto estemporanei ed eccezionali.

Non si tratta della conservazione di somme nell'ambito di un rapporto professionale di curatela fallimentare, di eredità giacente, di interdizione, inabilitazione, ecc.; o nell'ambito di un particolare incarico di amministrazione di beni.

La Corte di appello di Torino, nella impugnata sentenza 423/2003, ha invece ritenuto il collegamento fra il mandato professionale stragiudiziale conferito all'avvocato di risolvere le questioni insorte fra i coeredi sulla misura del rispettivo diritto, ed il deposito della somma da suddividersi.

Ha anche affermato che il deposito de quo era oneroso perché “la relativa prestazione sarebbe stata compensata unitamente alla complessiva prestazione professionale”; che l’attività di assistenza stragiudiziale nella risoluzione di controversie ereditarie, può ricomprendere “ogni attività connessa, quale la materiale detenzione, ove necessario dei beni da dividersi”.

La Corte di appello di Torino sembra aver travisato i rapporti e le questioni.

Non si trattò di attività tipica dell'avvocato. Infatti, altro era l'incarico professionale di risolvere la controversia ereditaria insorta tra i 4 figli della sig.ra [omissis] ved. [omissis] da un lato e l'altra figlia [omissis] dall'altro lato, ed altro e ben diverso l'incarico spontaneo ed eccezionale degli eredi presenti in banca ([omissis] e [omissis]) di affidare le somme riscosse all'avv. [omissis] per il convegno di tutte le parti allo studio del legale poco tempo dopo per la definitiva chiusura della pratica. Erroneo è anche l'affermato collegamento negoziale tra i due rapporti.

Nella specie i rapporti sono stati diversi sia soggettivamente (l'incarico professionale era intercorso fra i detti 4 fratelli [omissis] e l'avv. [omissis], mentre solo alcuni di essi e cioè quelli presenti in banca, cioè [omissis] e [omissis], avevano richiesto all'avv. [omissis] la cortesia di tenere la somma prelevata), sia cronologicamente, sia nelle cause e nel contenuto.

I due rapporti mantengono dunque l'individualità e le caratteristiche proprie di ciascun tipo negoziale in cui essi si inquadrano; in detti rapporti non è ravvisabile, inoltre, né un negozio misto, né un negozio complesso.

Del tutto erronea, illogica ed insufficientemente motivata è poi l'affermazione apodittica contenuta nella sentenza, secondo cui il rapporto de quo “non muterebbe la sua natura neppure qualora, come sostiene l'avv. [omissis], fosse stato conferito sul posto, quella stessa mattina, a seguito di divergenze improvvisamente insorte e, quanto alla custodia della somma, solo da parte di alcuni dei coeredi”.

Possono rientrare nel mandato professionale solo le attività accessorie che siano specifiche e tipiche dell'attività professionale oggetto del mandato.

Ogni professionista può intrattenere con il cliente rapporti diversi e tutti tali rapporti non necessariamente rientrano nel mandato professionale.

Se il medico accompagna il paziente all'Ospedale, se l'ingegnere porta con sé il committente sul cantiere; se l'avvocato trasporta il cliente al Palazzo di Giustizia o lo accompagna per altre varie attività, non si potrà negare che trattasi di rapporti di cortesia.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1768, 2° comma c.c. e della tariffa forense approvata con D.M. 05/10/1994 - insufficiente, erronea, illogica motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.)” esponendo censure che possono essere riassunte nel modo seguente.

Dopo aver affermato che la detenzione del denaro da parte dell'avv. [omissis] avveniva nell'adempimento del mandato professionale, la Corte di appello di Torino afferma anche che “risulta chiaramente superata la presunzione di gratuità del deposito, in quanto la relativa prestazione sarebbe stata compensata unitamente alla complessiva prestazione professionale”.

Né avrebbe rilievo, al riguardo, l'inesistenza di una specifica voce di tariffa, trattandosi di un accessorio di un’attività prevista quale l'attività di amministrazione e gestione.

Al contrario di quanto asserito nella sentenza impugnata, non esiste nelle tariffe forensi approvate con D.M. 05/10/1994 n. 585 , la voce “attività di amministrazione e gestione”, ma la ben diversa voce “prestazioni di gestione amministrativa in adempimento di incarichi giudiziari” (n. 6 degli “Onorari e indennità in materia stragiudiziale civile”), voce che è differente da quella indicata in sentenza, avendo essa riguardo ad incarichi di curatore, custode, esecutore testamentario, ecc..

Erronea è anche l'affermazione della sentenza secondo cui costituirebbe un argomento capzioso il dato formale della inesistenza di una specifica voce detta tariffa professionale.

La sentenza impugnata ha dedotto l'onerosità del deposito solo in quanto esso era collegato al mandato professionale.

Ma, in ipotesi, poteva ben trattarsi di attività accessoria a quella professionale ma del tutto gratuita perché sia in base allo svolgimento dei fatti, sia in base alle voci della tariffa forense era assolutamente inammissibile ed impossibile che l'avv. G. ottenesse un compenso per la sua attività di custodia.

Trattandosi di deposito almeno gratuito, doveva essere applicata la norma dell'art. 1768, 2° comma, c.c..

I primi due motivi non possono essere accolti.

Infatti la Corte di Appello di Torino ha esposto una motivazione che si sottrae al sindacato di legittimità in quanto sufficiente, logica, non contraddittoria e rispettosa della normativa in questione.

In particolare va rilevato quanto segue:

A) la Corte di merito, in realtà, non ha negato la distinzione tra il deposito ed il mandato; ma ha invece parlato di “...collegamento tra il mandato professionale stragiudiziale ed il deposito della somma...” (v. a pag. 8) ed ha affermato che “...la detenzione del denaro da parte del legale fosse assolutamente funzionale all'incarico che gli era stato affidato...”; insomma ha evidentemente ritenuto che il deposito della somma ed il mandato professionale fossero due negozi giuridici diversi ma strettamente collegati nel senso che il primo era strumentale (v. la significativa espressione: “...accessorio...”; alla ventiduesima riga di pag. 10 della sentenza) rispetto al secondo; e cioè nel senso che serviva a meglio e più completamente soddisfare gli interessi e le aspettative dei clienti del professionista; perseguendo a tal fine gli scopi indicati nella prima metà della pag. 9 del ricorso. Se qualche espressione contenuta in sentenza appare (a prima vista) contrastare con tale ricostruzione dei fatti, la cosa deve dunque essere attribuita a mero lapsus calami;

B) una volta chiarito ciò appare evidentemente priva dei vizi denunciati ogni argomentazione della Corte fondata sulla compatibilità del suo assunto anche con l'eventuale occasionalità dell'incarico a causa di “...divergenze improvvisamente insorte...” la stessa mattina in questione; ovvero fondata sul rilievo che “...la relativa prestazione sarebbe stata compensata unitamente alla complessiva prestazione professionale...” (si badi bene: detto Giudice ha scritto: “unitamente alla...” e non ha invece usato l'espressione “...nell'ambito della...”, o similari); infatti la Corte ha evidentemente ritenuto che si trattasse di compenso ulteriore (ed in relazione ad un incarico ulteriore) rispetto a quello (strettamente e tipicamente) professionale; il che (va ribadito) priva di base (“a monte”) tutte le doglianze fondate sulla asserita non inquadrabilità del deposito suddetto nella tariffa professionale (va rilevato a tal proposito che deve ritenersi esposta ad abundantiam - con conseguente inammissibilità delle doglianze che la riguardano; cfr. Cass. Sentenza n. 7074/2006 - l'argomentazione della Corte di merito concernente la possibilità di far rientrare l'attività in questione “...nel quadro...” della “...attività di assistenza stragiudiziale nella risoluzione di controversie ereditarie...”; v. a pag. 10 della sentenza);

C) appare a questo punto immune dai vizi denunciati anche la tesi concernente la non gratuità del deposito; evidentemente (anche se implicitamente) collegata (dalla Corte) da un lato alla (ovvia) non gratuità dell'incarico strettamente professionale suddetto e dall'altro allo stretto collegamento funzionale tra le due attività; e cioè fondata - in sintesi - sull'implicito rilievo che il professionista eseguiva il compito (deposito) in questione per compiacere e appagare i suoi clienti (in quanto tali) e quindi in vista di una sua convenienza ed utilità (sempre nell'ambito dunque degli incarichi ricevuti; anche se non tutti rientranti tra le voci della tariffa professionale), e non per mera liberalità. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia “violazione art. 1768, 1° comma, c.c., sulla diligenza nella custodia. Erronea ed illogica motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue.

La Corte di appello di Torino nella sentenza impugnata 423/2003 rileva addirittura che “il comportamento del legale appare non solo esente da colpa, ma anzi gravemente imprudente”, e sostiene che il legale doveva “o riporre la borsa nel baule dell'auto, chiuso a chiave” o “riporre il denaro, convenientemente racchiuso in buste, nelle tasche o nel cassetto interno dell'automobile”.

La motivazione della sentenza impugnata appare però del tutto erronea, illogica, astratta e totalmente avulsa dalla realtà. Invero, se la borsa fosse stata posta nel baule dell'auto, essa sarebbe stata asportata con maggiore facilità dal malvivente, quando l'auto sostava al semaforo, perché è nota la facilità con cui i professionisti dei furti d'auto aprono portiere ed i bauli.

Se poi la borsa fosse stata posta sul sedile anteriore, essa sarebbe stata più visibile e più facile preda da parte del ladro. Avendo i [omissis] chiuso la somma in una grande busta incollata e controfirmata, l'avv. [omissis] non avrebbe potuto rompere la busta chiusa ed i sigilli apposti dai [omissis].

Era anche impossibile riporre il denaro, “racchiuso in buste” nelle proprie tasche, perché la somma di denaro liquido, di lire 26.500.000 era composta da biglietti da lire 100.000 e 50.000 e dunque si trattava di 30-35 pacchetti, che dovettero essere poi rinchiusi in una grande busta formato protocollo.

In definitiva, l'avv. [omissis] osservò una diligenza assolutamente normale.

Anche il terzo motivo non può essere accolto in quanto si è di fronte ad una tipica valutazione di merito che si sottrae al sindacato di legittimità in quanto immune dai vizi denunciati.

Va precisato che le doglianze in esame, nella misura in cui si basano su asserite circostanze di fatto (ad es. circa il numero e le caratteristiche dei pacchetti, e le dimensioni della busta sopra citati) diverse da quelle enunciate nell'impugnata decisione, ovvero in questa non adeguatamente considerate, debbono ritenersi inammissibili (prima ancora che prive di pregio) in quanto non citano adeguatamente le risultanze processuali su cui si basano, riportando inoltre ritualmente il loro contenuto; infatti, come questa Corte ha osservato più volte (cfr. tra le altre Cass. n. 4754/1999; Cass. n. 376/2005; Cass. n. 20321/2005; Cass. n. 1221/2006; Cass. n. 8960/2006; Cass. n. 7767/2007; e Cass. n. 6807/2003) ai fini della specificità del motivo di censura, sotto il profilo dell'autosufficienza dello stesso, il ricorrente per cassazione il quale deduca l'omessa o comunque viziata motivazione della sentenza impugnata in relazione alla valutazione di una risultanza processuale che asserisce decisiva, ha l'onere di indicare in modo adeguato e specifico la risultanza medesima, dato che per il principio dell'autosufficienza del ricorso per Cassazione il controllo deve essere consentito alla Corte sulla base delle sole deduzioni contenute nell'atto, alle cui lacune non è possibile sopperire con indagini integrative. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia “omesso esame ed omessa motivazione della questione dell’accettazione del rischio da parte dei sig.ri S. (art. 360 n. 5 c.p.c.)” prospettando censure che debbono essere sintetizzate nel modo seguente.

L'avv. [omissis]. aveva eccepito l'infondatezza della domanda risarcitoria proposta dai sig.ri [omissis], sotto il profilo che, essi, presenti in banca nelle persone di [omissis] e [omissis], avevano presenziato a tutte le operazioni, ed anche a quella di collocamento del denaro in una grande busta incollata e controfirmata sistemata nella borsa professionale dell'avvocato, borsa che poi era stata posta dall'avvocato nella propria auto. In particolare, si chiedeva l'avv. [omissis] cosa avessero potuto pretendere i [omissis] sotto il profilo della sicurezza, quando era noto che “il professionista non ha scorte e né usa auto blindate”, e quando essi avevano senza contestazioni accettato quel tipo di trasporto del denaro dalla Banca allo studio legale; ed aveva affermato: “Non è lecito agli attori qualificare negligente una condotta che sarebbe stata quella identica che avrebbero essi stessi adottato - e così ogni altra persona - se avessero deciso di portarsi i soldi a casa invece di affidarli ad un terzo”.

Ebbene, tale questione, decisiva per la risoluzione della causa, non è mai stata presa in esame dalla sentenza della Corte di appello di Torino cui si ricorre.

Anche il motivo in esame non può essere accolto.

Infatti trattasi di circostanze palesemente prive del requisito della decisività, dato che l’eventualmente avvenuta assistenza all'immissione delle somme di denaro in una borsa non comporta di per sé che vi sia stata una accettazione (giuridicamente valida ed idonea a suffragare le conclusioni che ne trae il ricorrente) delle precauzioni adottate (o della carenza delle stesse) al momento dell'affermata immissione del denaro nella borsa; e ciò vale a maggior ragione con riferimento alla condotta successiva (e decisiva ai fini in questione); e cioè a quella seguita del professionista una volta venuta meno la presenza delle controparti. Anche in tal caso le doglianze in esame, nella misura in cui si basano su asserite circostanze di fatto diverse da quelle enunciate nell'impugnata decisione, e non ritualmente riportate, debbono ritenersi inammissibili (prima ancora che prive di pregio) per violazione del sopra citato principio di autosufficienza del ricorso.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto. Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di Cassazione.

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